L’Agresto è un condimento acidulo ottenuto attraverso la cottura del mosto di uva acerba con l’aggiunta di aceto e spezie.
Il prodotto si presenta con una densità simile all’aceto balsamico, dal colore rosso scuro con tonalità calde. Il profumo è complesso e il contrasto fra il dolce e l’acidulo rende il condimento interessante non solo per le insalate, ma anche come ingrediente nella preparazione di piatti a base di carne o pesce.
L’Agresto è una elaborazione del succo di uva acerba utilizzato in passato come materia prima per produrre bevande fresche estive (succo di uva spremuta e miele) oppure come ingrediente per diversi tipi di salse.
Metodo di lavorazione
L’uva viene raccolta a fine luglio, appena invaiata, e i grappoli scartati durante il diradamento vengono raccolti in piccole cassette da appassimento dove rimangono fino al raggiungimento di una buona concentrazione (20 giorni).
L’uva così appassita viene pigiata e posta in un tino, come nella vinificazione; ma prima che si sviluppi la fermentazione vinosa si spilla il mosto, passandolo per un setaccio, non molto fitto. La caratteristica peculiare della pigiatura dell’uva da agresto è la delicatezza: può essere effettuata sia in modo meccanico che manuale, ma deve sempre essere soffice.
La tradizione racconta che i contadini, quando pestavano a piedi nudi, erano soliti appoggiarsi su bastoni per far sì che tutto il loro peso non cadesse sugli acini, oppure facevano eseguire questa operazione dai bambini.
Prima di passare alla cottura, è necessario saggiare il contenuto zuccherino del mosto che, posto in ampie pentole, si fa bollire, senza coperchio, a fuoco lento, levando man mano la schiuma e protraendo poi l’ebollizione sino a ridurre il mosto al 50-70% del volume originario, fino alla consistenza di uno sciroppo.
Alla fine del processo di cottura si aggiungono il dragoncello, la cannella, la cipolla, l’aglio e il miele in piccole quantità, e si continua la cottura per 15-20 minuti. Alla fine si aggiunge una quantità di aceto di vino pari dal 20 al 40% del concentrato ottenuto.
Dopo un’ulteriore filtrazione l’Agresto è pronto per essere imbottigliato.
La storia
Fin dall’antichità era uso accompagnare gli alimenti con condimenti – dal latino conditio, condimentum – al fine di dare grazia, di “perfezionare” – come indicava il dizionario della Crusca – gli alimenti.
I romani, che apprezzavano i sapori acidi, gradirono l’Agresto, che sembra identificarsi con l’omphacium ottenuto dalla spremitura delle uve acerbe e citato da numerosi autori come Plinio.
L’uso di questo condimento, con variazioni più o meno significative, sopravvisse nei secoli altomedievali per diventare un condimento molto diffuso nella cucina medievale non solo italiana ma anche, ad esempio, francese. La presenza diffusa della vite permetteva di ottenere non soltanto il vino, ma di utilizzare l’uva anche per altri scopi alimentari.
L’Agresto rimase uno dei principali condimenti, paragonato all’olio o all’aceto, come componente essenziale nella preparazione di molte pietanze, o ingrediente necessario nella preparazione di molte vivande. Ad oggi, molti lo danno come ancora esistente nella Lombardia ma, in realtà, il suo uso era diffuso in tutta Italia, dove l’Agresto veniva ottenuto dalla sola spremitura dell’uva acerba talvolta accompagnato dall’aggiunta di sale o altre spezie.
Le notizie più antiche relative all’Agresto risalgono a quello che è il primo trattato di agricoltura italiano del medioevo, composto da Piero De’ Crescenzi nella prima metà del XIV secolo. Lo scrittore bolognese cita l’Agresto tra i principali prodotti dell’uva, oltre al vino e all’aceto e ne illustra così la manifattura:
«L’agresto si fa di due maniere, liquido e secco. L’agresto liquido si fa in questo modo. Quando l’uve sono acerbe, e son venute a debi to accrescimento, si colgono e si pestano, e in mastello o in tino o altro vaso si pongono al Sole, e in quello si pone alquanto di sale. E poiché due ovvero tre dì al Sole sieno state, si prende il sugo, e riposto, all’uso si serba: e alcuni del sale non vi mettono: ma con quello meglio si conserva e massimamente se di cotali uve fatto sarà, il cui vino di State serbar non si può. L’agresto secco così da fare è. Togli l’uve acerbissime, e pesta e priemi e poni in vaso di rame a fuoco, e cuoci tanto, che alla coagulazione s’approssimi, e poi lo poni in vaso disteso, e ponlo al Sole tanto che si secchi, e serbalo e alcuni il pongono a seccare al Sole senza cuocere, se l’Sole è caldo. Alcuni fanno l’agresto d’uve, che alcuna cosa di dolcezza abbiano: ma il primo è più stitico e più freddo.»
Un terzo modo prevede di fare l’Agresto simile, nella consistenza, al miele:
«ch’è molto virtuoso, siccome di sopra detto è nelle virtù dell’uve.»
Nel medioevo la diffusione dell’Agresto spazia dalle tavole dei poveri a quelle dei ricchi, e lo si trova indicato in numerose ricette.
In Toscana, l’uso dell’Agresto era ampiamente diffuso e rientrava negli intingoli e guazzetti delle carni in umido fin dal XIII secolo, come sembra confermare la nota che, alla fine del XV secolo Padre Agostino del Riccio, autore di importanti opere di agricoltura, scrive nella sua “Agricoltura Sperimentale”:
“È cosa comune e tutta a favellare come si facci l’agresto in Toscana.»
Il testo di Padre Agostino del Riccio è molto importante per capire la diffusione dell’agresto nella tradizione toscana.
Pochi anni dopo, nella prima metà del XVI secolo, Giovan Vittorio Soderini ci dona la migliore descrizione della fabbricazione dell’Agresto. Egli specifica come l’Agresto debba:
«esser d’uve tutte d’una fatta, e si deono cogliere i grappoli avanti che abbiano punto del maturo.»
Per fare l’Agresto “ordinario” si colgono i grappoli interi e:
«si premono bene nel tino prima co’piedi, poi con un pestone di legno, e subito cavatone più netto che si può, avendolo fatto passare per un panno lino posto sopra alla bigoncia, s’infiasca mettendo per ciaschedun fiasco mezz’oncia di sale, e lasciando per quindici dì sturato il fiasco tenendolo al Sole, e dipoi si turi e si tenga in lato asciutto, e tanto si faccia a proporzione, tenendolo nella botte.»
L’autorevole agronomo ci dice che l’Agresto fatto di moscatello è di migliore qualità rispetto a quello ordinario per essere più buono e profumato, seguito solo da quello dell’uve di tre volte o di altre uve ricche di succo. Soderini descrive poi un altro modo di ottenere questo piacevole condimento:
«Piglisi adunque dell’ agresto, di Viti di tre volte massimamente, o altro di sugo assai, e acerba bene , e non ghezza (ovvero non), dipoi si pesta molto bene, e se ne cava il sugo in mortajo o in bigoncia, dipoi si lascia riposare in un vaso invetriato, dove si lasci stare per tre dì al Sole: accanto a questo fatto passare per istamigna, gettisi via la bozzima, e ‘1 chiaro che n’ è uscito, si metta a cuocere in una gran pignatta bene invetriata al fuoco, e si lasci cuocere finché sia scemato per metà; dipoi si muti in un’ altra pignatta, e si metta di nuovo al fuoco che bolla bene, e che torni pur per metà, e serbisi in vaso di vetro, mettendovi un poco di sale a discrezione, e ‘1 vaso sia, fiasco turato con bambagia muschiata, e sarà agresto delicatissimo per gli bisogni. Pigliasi ancora l’agresto quando è ben grosso, e in sul voler maturare, dipoi si pesta in mortajo di pietra con pestello di legno, e nel pestarlo mettevisi alquanto di sale; più appresso mettasi al Sole per due o tre dì, dipoi si riponga in vasi invetriati, chiusi che non v’entri l’aria, e ponendo nel collo del fiasco in cima un dito d’olio buono si conserverà meglio.»
E ancora, con estrema precisione, descrive le modalità per ottenere l’Agresto secco:
«Ancora farai ben cuocere l’agresto tanto che scemi una debita porzione, e faccia un poco di cor- po come una pasta; deesi prima salare, e accanto s’adoperi in pezzi come altrui vuole. Ancora l’agresto che si conserva secco si fa così: tolgasi l’uva agrissima e acerbissima, pestala bene e spremila, e fa’ bollire quella colatura tanto che s’assodi; dipoi ponlo in su gli asserelli a seccare al Sole, e riponlo a tutti gli usi in vaso di terra cotta invetriato. Altri mettono a indurire l’agresto spremuto al Sole caldo, poi ne fan confaccette, e serbanlo a quel modo in lato asciutto, e l’uno e l’altro in pestandosi e spremendosi, si dee insalare a discrezione.»
E infine:
«Mettendo a impassir l’agresto al Sole per quattro o cinque dì, e dipoi pestato si ponga nelle gabbie fitte nello strettojo, e quello che se ne spreme, si conserva, insalandolo un poco. Deesi avvertire, che s’egli è fatto di sorte d’uve che non conservino il vino alla State, bisogna dare tre libbre di sale per barile, e se per contra bastano due.»
Dal ‘500 al ‘700 l’Agresto rimase uno dei prodotti realizzati dai contadini mezzavoli e fittajoli nel proprio podere. I primi documenti relativi all’Agresto a San Miniato risalgono alla metà dell’ottocento e sono stati trovati dal Parroco di Moriolo (una piccola località del sanminiatese) Don Luciano Marrucci.
La produzione dell’Agresto era cessata a livello imprenditoriale, e la ricetta originale è arrivata fino a noi grazie ad alcune anziane agricoltrici che avevano in casa degli antichi testi di ricette locali.
Fonte: Agia Toscana, Arsia – Regione Toscana, Prodotti agroalimentari tradizionali: un’opportunità da valorizzare, 2008